Non so esattamente quando ho iniziato a essere grata. Forse quando ho capito che aspettare qualcuno che mi salvasse era più faticoso che salvarmi da sola, o quando ho scoperto che in fondo le cose belle esistono, anche quando tutto sembra dire il contrario.
Credo che la gratitudine sia una forma di resistenza, un atto rivoluzionario. Perché ogni volta che ho pensato di essere caduta troppo in basso, ogni volta che la mia vita si è frantumata in mille minuscoli pezzettini che parevano impossibili da raccogliere, mi sono ritrovata lì, chinata a raccoglierle uno a uno con cura, per ricomporre un mosaico che raccontasse qualcosa di nuovo, qualcosa che mi somigliasse di più.
Ero sola, spesso, mentre rimettevo insieme quei pezzetti di me stessa. Ero sola ma ero presente, e c’è una grande dignità nel farcela da sé, una dignità silenziosa che impari solo attraversando la solitudine, guardandola dritta negli occhi. Eppure, anche in quei momenti difficili, anche quando il mondo sembrava lasciarmi indietro, ho imparato a trovare qualcosa per cui dire grazie. È diventato quasi un riflesso naturale, questo cercare le cose belle, questo scovare dettagli di meraviglia sparsi qua e là, nascosti nelle pieghe dei giorni storti.
Ho avuto così tanto, anche nelle mancanze. Ho avuto incontri che mi hanno cambiata, occhi che hanno saputo vedermi davvero, mani che mi hanno teso un ponte proprio quando avevo smesso di crederci. Ho avuto viaggi che mi hanno svelato parti di me stessa che non conoscevo, scoprendo quanto sia capace di adattarmi, di amare e perfino di guarire. Ho sentito abbracci che si sono impressi nella pelle, visto posti nuovi che mi hanno fatto pensare che forse la felicità non è solo un miraggio lontano. Ho conosciuto l’amore, quello vero, quello complicato, quello fatto di distanza e presenza, di discussioni stanche e ritrovi sinceri, quello che ti mette alla prova ma che non riesci a lasciar andare.
Ci sono stati giorni difficili in cui ho dubitato davvero di me stessa, ho avuto paura di non essere abbastanza, di non meritare davvero tutto questo, che forse fosse solo un errore cosmico. Eppure, in ogni momento di dubbio, in ogni attimo di vuoto che avrebbe potuto divorarmi, ho sempre avuto qualcosa a cui aggrapparmi: me stessa. Non mi ero mai considerata particolarmente forte, non pensavo nemmeno di saperlo essere, finché non ho capito che la mia forza più grande è proprio il fatto di non nascondere le mie fragilità. Non sempre, almeno.
Ho imparato a dire grazie a questa me capace di rialzarsi ogni volta, a questa donna testarda che ha imparato a stare sulle sue gambe anche quando tremavano al punto da far rumore. Mi sono guardata indietro e ho ringraziato ogni decisione presa da sola, ogni “no” che mi ha salvata, ogni porta chiusa che mi ha costretta a cambiare direzione, ogni distanza attraversata con coraggio, ogni volta che ho scelto la mia pace invece dell’approvazione altrui.
Oggi mi sento grata di avere imparato a non aver paura di mostrare fragilità, a non vergognarmi delle mie emozioni che prima tenevo nascoste come fossero difetti. Ho scoperto che questa vulnerabilità non è una debolezza, ma il terreno più fertile su cui può germogliare qualcosa, non so cosa, però qualcosa. La mia vulnerabilità è fertile e feconda.
E quando guardo avanti, so che sarò ancora capace di cavarmela da sola se dovessi averne bisogno. So che la gratitudine non mi rende immune alle ferite, ma mi rende capace di guarirle più rapidamente. Non è una magia che cancella la tristezza, ma la forza calma e che mi permette di attraversarla con dolcezza.
Perché in fondo, dire grazie è diventato il mio modo di guardare il mondo, è la mia forza silenziosa, la mia personale rivoluzione che, giorno dopo giorno, continua a salvarmi.
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