Anori è uno di quei film che ti entrano dentro, non per quello che mostrano ma per quello che ti fanno riconoscere. La storia di una donna che si aggrappa a una speranza impossibile: essere amata da qualcuno che, in fondo, non può amarla davvero.
La protagonista sa che lui è egocentrico, sa che le loro vite sono mondi diversi, eppure sceglie di credere che possa cambiare tutto per lei. Non è ingenuità, è fame d’amore. Quella fame che ti fa ignorare i segnali, che ti fa interpretare ogni piccolo gesto come una promessa, ogni momento di tenerezza come la prova che “forse questa volta è diverso”.
Il film non racconta solo una storia d’amore impossibile. Racconta di come il bisogno di sentirsi scelti possa diventare più forte della lucidità. Di come si possa diventare complici della propria illusione, costruendo una realtà alternativa dove i “forse” diventano certezze e le scuse dell’altro diventano ragioni valide.
La protagonista non è una vittima passiva. È attivamente coinvolta nel creare la sua favola, nel dare significato a gesti che non ne hanno, nel trasformare briciole in banchetti. Perché affrontare la verità, che non sei la scelta giusta per quella persona, è più doloroso che vivere nell’incertezza.
Anori è uno specchio spietato. Ti ricorda che tutti, prima o poi, rischiamo di perdere noi stessi inseguendo l’amore di qualcuno che ci tiene in bilico. Che tutti abbiamo quella parte di noi disposta a barattare la dignità per la speranza di essere finalmente scelti.
E forse il vero coraggio non sta nel credere contro ogni evidenza, ma nel saper guardare la realtà negli occhi, anche quando fa male. Anche quando significa accettare che, semplicemente, non siamo la persona giusta per chi vorremmo amare.
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